di Giovanni Guggeri
E’ stata una lezione speciale quella che Francesco Carvelli, per 35 anni trainer finanziario alla FAO, ha tenuto agli alunni di 3B, che a conclusione del programma di storia, hanno approfondito la nascita delle grandi organizzazioni sovranazionali del dopoguerra.
Carvelli, collegato in videolezione, ha raccontato la nascita della Food and Agricolture Organisation, creata nel 1946 con la prima sede in Canada. Nel 1950 si trasferisce a Roma, dove oggi lavorano 4000 persone, la maggior parte tecnici.
Nel mondo la FAO ha 110 uffici per dare assistenza ai paesi in via di sviluppo. Assistenza, non cibo come si potrebbe pensare, perché è necessario insegnare alle popolazioni ad essere autonome perché il problema della fame non si ripresenti più.
Molti uffici si trovano nei paesi più poveri e disagiati del mondo: “Ti può capitare di lavorare alle Seychelles come in Afghanistan – racconta Carvelli – Prima di partire bisogna sempre avere l’ok della sicurezza interna, una volta ero all’aeroporto pronto a partire per Kinshasa quando mi hanno richiamato indietro perché era scoppiata una rivolta”.
Avendo trascorso una vita intorno al mondo Carvelli parla cinque lingue e ha un aneddoto per ogni Paese: “Sono uno dei pochi italiani che è riuscito a ricevere il visto per la Corea del Nord: lì sembra veramente di essere in un altro mondo, a cominciare dall’abbigliamento tutto uguale per finire all’ossessivo controllo di tutta la società, tanto che non si può mai stare a tu per tu con un coreano, bisogna che ce ne siano sempre due. E’ una forma di imperialismo comunista”.
Diverse le domande poste a Carvelli.
Le è mai successo di assistere a un episodio di violenza?
No, ci consigliano di non trovarci mai in quelle situazioni. Il pericolo può essere sociale e politico. A Kabul per esempio c’è pericolo politico ma non sociale, quindi la notte puoi camminare per strada senza nessun problema, mentre in Congo è il contrario: non c’è problema politico, ma puoi trovare bande di ragazzi per strada che ti derubano. In ogni caso l’organizzazione prima di partire ti fa sempre fare un corso per la sicurezza in cui ti spiegano cosa fare e non fare. Per esempio in Afghanistan è meglio andare a mangiare nei locali frequentati dalla gente del posto perché difficilmente ci farebbero esplodere una bomba. In Congo al contrario è meglio mangiare nei locali frequentati da occidentali.
La volta che ha rischiato di più?
Nella repubblica democratica del Congo ho preso un taxi, ma a un posto di blocco l’autista inspiegabilmente non si è fermato. Correva come un matto, ha fatto volare un motociclista e colpito molte macchine. Ho afferrato il volante e gli ho gridato in francese di farmi scendere o avrei fermato la macchina togliendo le chiavi. Mi ha fatto scendere di fretta e furia ed è scappato.
L’Africa come sta affrontando il problema del Covid-19?
Pare che il virus in Africa sia meno letale probabilmente perché è una società molto giovane: l’aspettativa di vita lì è di circa 55/60 anni.
C’è un progetto che la rende particolarmente orgoglioso?
Uno in Burkina Faso sulla produzione di burro di karité. Questo progetto faceva lavorare molte donne, che ne erano entusiaste e ci accoglievano ogni volta con una gioia contagiosa. Un’altra volta nella Repubblica Centroafricana abbiamo dato 1000 motorini agli agricoltori e loro hanno scritto “Merci Fao” dietro ai sellini.
Cosa ne pensa di progetti come il microcredito? Possono veramente cambiare le cose?
Certamente. Noi abbiamo un’agenzia che presta i soldi. Prima li prestava al Ministero dell’agricoltura dei vari Paesi, poi si è visto che molti soldi andavano sprecati, allora ha cominciato a prestarli direttamente alle persone. Una parte anche a fondo perduto. E’ una cosa che funziona tantissimo in Africa, dove chi ha un campo ha bisogno di comprare i semi, per esempio.
Tra tanti posti che ha visto ce n’è uno dove ha lasciato il cuore?
Dal punto di vista paesaggistico l’Africa ma viverci sarebbe un problema, invece un posto che unisce bellezza e servizi è Panama.